24 marzo 2006

OTTANTA SONO POCHI


Io Dario Fo me lo ricordo così.
Ancora in bianco e nero.
Non perchè le immagini lo fossero ma perchè la mia televisione Dumont non era a colori. Spiccava con il suo faccione a lati rosso arancione dall'alto del frigorifero con la manigliona consumata.
Me lo ricordo contorcersi e farfugliare in un dialetto che non comprendevo. Ma che mi faceva ridere. Era buffo. E poi capivo il senso.
Perchè i bambini non hanno bisogno di interpreti o corsi di lingue. Se vogliono farsi capire o ascoltare gli basta aguzzare l'ingegno, attraversare gli sguardi e tradurre i gesti, i toni della voce.
Come quando a sette anni ho insegnato a giocare a scopa ad un bambino arabo timido e fragile che aspettava il mio ritorno da scuola sul suo letto. Si chiamava Fati, o qualcosa del genere. Non chiedetemi il suo paese d'origine, non l'ho mai saputo. O non mi è mai interessato. Di sicuro qualche stato affacciato sul Mediterraneo, dall'altra parte di questo grande lago che crediamo sia nostro e invece fa burrasca o tace senza chiederci consenso. Che ci restituisce corpi e gommoni. Reperti archeologici e tracce fresche di povertà e disperazione.
Non ricordo la voce di Fati. Forse non l'ho mai sentita.
Io bussavo alla porta della stanza della pensione gestita da mia nonna in cui stava tutto il tempo che non trascorreva in ospedale. Era paralizzato dal bacino in giù. Anche i motivi della sua malattia mi erano e mi sono sconosciuti.
Mi siedevo accanto a lui e tiravo fuori le carte e cominciavano a giocare a carte. Fino a quando il padre non entrava e faceva un cenno. Io andavo via. Basta.
Così ogni anno, quando veniva per i controlli medici.
Così, come se fosse trascorsa solo qualche ora, ricominciavamo le nostre partite silenziose.
Che però dovevano piacermi. Perchè i bambini nella loro grande ingenua crudezza non conoscono la pietà e il sacrificio.
Scelgono solo ciò che gli piace. Non si piegano facilmente a compiti ingrati.

Queste due cose mi sono venute in mente oggi che ho letto dell'imminente compleanno di Dario Fo. Che per me non è il signor Nobel della letteratura. E' solo un uomo già un pò vecchio, spettinato, infilato in un dolcevita a collo alto (ah come li odiavo quegli strumenti di tortura che pungevano da tutte le parti!) e con i dentoni, che raccontava una storia esilarante di Gesù Bambino. Un ragazzino iroso, invidioso e un pò "puzzone". Un bambino come tutti gli altri insomma. Che non ci sta a predere le scommesse ed a sentirsi inferiore agli altri, soprattutto se sa fare delle cose fantasmagoriche, dei miracoli....
Io me le ricordo come se fosse ieri quelle immagini con il marchio RAI. E mi torna ancora su una risata.
E allora auguri sinceri Dario!